Saper Vedere Oggi. Come cambia la visione in una società globalizzata

Premessa

Quando Franco Purini mi propose che la Classe di Architettura dell’Accademia delle Arti del Disegno organizzasse un convegno sul tema della Visione, trovai subito l’argomento affascinante. Pur non essendo il mio settore di studi, credo che la questione del saper vedere, del capire un’opera, un’architettura, sia estremamente importante e nello stesso tempo sottovalutata. Avrebbe dovuto essere un ampio convegno, poi la pandemia ci ha bloccato. Abbiamo dunque ritenuto che i tempi imponessero un evento più agile. Così Franco ha pensato ad un pomeriggio insieme con il filosofo Sergio Givone. Perché visione è comprensione, è filosofia.

Il 21 marzo, nella Sala delle Adunanze della nostra Accademia, Sergio Givone ha tenuto la sua lectio magistralis sul tema. L’evento è stato seguito sia in presenza che on line. La partecipazione è stata intensa e gli interventi di notevole interesse. Sul sito della nostra Accademia troveranno presto posto.

Ho detto che questo non è il mio campo, eppure il tema mi ha posto tante domande e spunti di riflessione. Li ho proposti al convegno e qui li riassumo.

“Saper vedere”

Era il 1933 quando Matteo Marangoni pubblicò “Saper vedere”, che per la prima volta cercava di educare alla comprensione e ad una visione corretta di un’opera d’arte. 

Il libro ebbe subito grande fortuna, tanto che nel 1948 Bruno Zevi ne parafrasò il titolo nel suo “Saper vedere l’architettura”. L’assunto era che non si possono applicare all’architettura i criteri di giudizio con cui si vede una pittura o una scultura.

“Qual è il difetto caratteristico della trattazione di architettura nelle correnti storie dell’arte?” si domandava Zevi. E rispondeva: “Gli edifici sono giudicati come fossero delle pitture e delle sculture, cioè esternamente e superficialmente, come puri fenomeni plastici… Il carattere precipuo dell’architettura – il carattere per cui essa si distingue dalle altre attività artistiche – sta nel suo agire con un vocabolario tridimensionale che include l’uomo… L’architettura deriva dal vuoto, dallo spazio racchiuso, dallo spazio interno in cui gli uomini camminano e vivono”.

Ed ecco nel 1960 ancora Zevi pubblicare, sull’onda del successo del suo primo libro, “Saper vedere l’urbanistica”, basato sullo stesso schema: “La realtà di un edificio dipende dai punti di vista esterni, cioè dalla conformazione dello spazio urbano in cui si immerge; e viceversa questo spazio è qualificato tridimensionalmente dagli edifici che lo contornano…Che lo spazio sia protagonista anche dell’organismo urbano appare evidente. La gente non sa leggere una città perché non sa vederne i vuoti”.

Ecco la domanda: questa lettura rimane ancora attuale? E’ lo spazio la chiave di lettura di un’architettura, di una città?

Saper vedere un’architettura e una città

Ripropongo allora la domanda di Zevi: come si legge un’architettura? Foto e video non riescono a far comprendere un edificio o una città, ne danno solo una visione parziale e soggettiva. La foto permette forse di vedere e giudicare un dipinto, ma già si scontra con la tridimensionalità della statua. Forse un video riesce a mostrare una scultura, seppur parzialmente.  Ma un’architettura, come una città, deve essere vista dal vivo e percorsa, solo così si ha piena consapevolezza dei suoi spazi, dei suoi rapporti, delle sue dimensioni, delle sue relazioni con lo spazio e l’ambiente che la circonda.

Le Corbusier tracciava schizzi e disegni delle architetture che visitava, non foto. Lo schizzo raccoglie impressioni, un’intimità, una tridimensionalità della visione, che la foto non rende: “Quando si disegna dal vero si sposta lo sguardo dalla realtà al foglio e dal foglio alla realtà in un andirivieni continuo. Si osservano i contorni delle forme, si rintracciano i punti in cui qualcosa copre qualcos’altro, le giunture, i rapporti spaziali e soprattutto si seguono con l’occhio i bordi degli oggetti, come a toccarli. Quando si fa una foto al contrario l’attenzione è per l’effetto d’insieme: l’occhio è fermo e si bada a cosa sta dentro oppure fuori dall’inquadratura perché il mirino ci impone di selezionare” (Riccardo Falcinelli “Figure: come funzionano le immagini dal Rinascimento a Istagram” un recente ottimo testo sulla cultura dell’immagine e dei meccanismi della visione). Oggi i tour virtuali, fatti di foto e di video, sostituiscono la visione diretta e forse certi progetti sono finalizzati proprio ad una visione virtuale.

La prospettiva centrale

Nel 1979 Enrico Guidoni pubblicava “Arte e urbanistica in Toscana 1000-1315”, nel quale dimostrava come nel Medioevo toscano i grandi progetti degli edifici pubblici scaturissero dalle visuali che se ne potevano avere delle strade circostanti, le quali determinavano una visione quasi sempre angolare. Le piazze si aprivano improvvisamente da un dedalo di strade e vicoli stretti e contorti, che rendevano difficile una visione frontale del monumento. Così ad esempio fu a Firenze per il Palazzo Vecchio, la cui torre sembra posizionata per una prospettiva angolare dell’edificio.

Così alla basilica di San Miniato si arrivava per un percorso, che non era quello centrale della scalinata ottocentesca, ma anch’esso angolare. L’Ottocento sentì il bisogno di sostituire quella veduta sghemba ad una rigorosamente centrale e costruì la grande scalinata di fronte alla facciata, cambiando completamente i punti di vista originari.

L’introduzione della prospettiva centrale brunelleschiana si tradusse in una concezione diversa dello spazio: come per la pittura, così anche per l’architettura impose una visione centrale di un edificio ed una simmetria delle parti che rispondeva alla “concinnitas” albertiana, un termine che non può semplicemente essere tradotto con simmetria, ma consiste in un’armonia che è equilibrio delle parti rispetto al tutto.

La visione prospettica centrale è una visione simbolica, per parafrasare l’espressione di Erwin Panofsky nel celebre saggio del 1927 “La prospettiva come forma simbolica”. Essa parte dal presupposto che il cosmo e la natura rispondano alla legge armonica dei numeri, un sistema ordinato e misurabile, al cui centro è l’uomo che tutto in sé racchiude.

Ma nota Riccardo Falcinelli “un disegno prospettico funziona solo se mi ci metto davanti con esattezza: se lo osservo di lato appare sghembo”. La centralità di un’immagine “è la manifestazione di una volontà, il segno parlante del mondo che si sottrae al caos e al disordine”. Di conseguenza la prospettiva centrale impone strade rettilinee, piazze geometriche, architetture solide con proporzioni equilibrate, progettate per una visione frontale.

Oggi la fisica quantistica ha posto in crisi la sicurezza umanistica sull’ordine misurabile del cosmo. Anche l’architettura contemporanea sembra aver subito l’effetto di questa crisi, proponendo edifici dalla plasticità informe e scultorea, che non rispondono più alle antiche leggi dell’armonia. A quale visione rispondono le torri contorte che i nostri architetti elevano contro il cielo? Quale è lo scopo di una forma architettonica che pare sfidare le leggi della gravità e della natura? Si tratta dell’ansia di Prometeo? Di una sfida al cielo ed agli dei? O più semplicemente della ferrea legge del culto dell’immagine, che deve sempre distinguersi, colpire l’immaginario, innalzare piedistalli alla personalità?

“E’ del poeta il fin la meraviglia…” scriveva 400 anni fa Giambattista Marino. Parole che mi sembrano di un’attualità sconcertante. Siamo entrati in una nuova decadente epoca di fasti barocchi?

E ripensando a Zevi mi domando ancora: come si pongono questi edifici con lo spazio urbano? Vi si relazionano? Sono pura immagine plastica che pretende di piegare a sé lo spazio, sia quello interno che quello esterno? O semplicemente lo ignorano e sono progettati solo per il potere dell’immagine, per essere fotografati?

Saper vedere all’interno di un’immagine

Nel 1957, appariva il libro di Vance Packard “I persuasori occulti”. Vi si svelavano i meccanismi psicologici della visione, dell’immagine come elemento che induce riflessi e comportamenti prevedibili e condizionabili, sul suo uso in pubblicità per l’efficace potere di persuasione. Un libro per i tempi rivoluzionario, ancora oggi lettura imprescindibile sull’uso, spesso perverso, dell’immagine e della visione.

Queste considerazioni aprono un altro aspetto del “saper vedere”, quello della componente simbolica di un’opera d’arte o di un’architettura. Aspetto questo che implica una visione intima e soggettiva, la cui comprensione varia da persona a persona.

Vi sono a mio parere tre tipologie di simboli.

La prima appartiene all’educazione ricevuta fin da piccoli: se vedo una figura umana con un’aureola attorno alla testa, subito la identifico come un santo; così se ha le ali capisco che rappresenta un angelo.

Ci sono poi simboli che indicano realtà immateriali ed idee e in passato sono stati oggetto di veri e propri compendi: celebre l’“Iconologia” di Cesare Ripa, stampato per la prima volta nel 1593, che codificava i simboli da usare per le immagini allegoriche.

Esiste infine una terza categoria di simboli, diversamente dalle precedenti accessibile alla comprensione solo di gruppi ristretti ed elitari, che definiamo iniziatici o esoterici. In passato erano più diffusi di quanto generalmente si ritiene. Sono questi i segni capaci di indurre forti coinvolgimenti emotivi e psichici.

Pensiamo alla pittura di un Piero della Francesca, che oltre al colore e all’immagine sorprende per il mistero di simboli che narrano un messaggio oscuro. Per fare un esempio ben conosciuto, mi ha sempre affascinato la Pala di Brera, con quella austera Madonna, assisa in un trono sormontato da una conchiglia, da cui pende un filo a piombo che termina in un uovo; in braccio un Bambino che al collo porta un ciondolo di corallo. O la sua Madonna in attesa del Parto, assorta in un pensiero da cui l’osservatore è estraneo, nell’intimità di una tenda i cui lembi sono scostati da due angeli simmetrici ed eterei. Simboli potenti, senza la cui comprensione si ha una visione solo parziale dell’opera. L’immagine rimanda dunque ad un contenuto, a un pensiero che ci è spesso oscuro e va ricercato con paziente studio e meditazione.

Così come l’architettura religiosa romanica non la si comprende se non sappiamo che l’abside si rivolge ad est, perché il sorgere del sole è simbolo dell’attesa messianica di ogni cristiano; né la si capisce se non ne leggiamo la nitida geometria degli impianti, delle tarsie, delle decorazioni, come simbolo di un Pensiero armonico, fatto di numero e misura, che permea il cosmo e la nostra natura.

La componente simbolica di un’opera d’arte o di un’architettura appare tuttavia ancora un campo di ricerca non adeguatamente studiato e spesso lasciato ad assurde speculazioni esoteriche di chi non ha occhi per vedere.

Vedere è comprendere. Per comprendere dobbiamo osservare. Vedere senza osservare, vedere senza comprendere, è solo scorgere le cose, sensazione puramente epidermica e fugace

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