Le due Gioconde

Quello di Leonardo da Vinci è un fenomeno mediatico per molti versi incomprensibile. Lo circonda un’aura di genio e di mistero tale che ogni novità che lo riguarda, vera o presunta, ha un’immediata risonanza sui media di tutto il mondo.
Così è successo anche al mio ultimo libro, “Il Velo della Gioconda. Leonardo segreto” (Polistampa, 2009): i media hanno diffuso dovunque la notizia che secondo uno studioso fiorentino (che sarei io) Leonardo, oltre alla Gioconda del Louvre, ne avrebbe dipinto anche una seconda versione, quest’ultima nuda. L’accoppiata mediatica Leonardo più femmina nuda è stata di grande impatto emotivo. Ma se fosse così avrei scoperto l’acqua calda, perché tutti gli studiosi di Leonardo ammettono che le numerose immagini di Gioconde Nude, che circolano fin dal XVI secolo, implicano l’esistenza di un prototipo leonardesco. Se non avessimo la Gioconda del Louvre, dovremmo ipotizzarne l’esistenza per le copie che ne furono fatte, già al tempo di Leonardo, da allievi o discepoli.
La novità del mio libro non sta in una presunta scoperta, ma nella proposta del probabile senso allegorico della Gioconda Nuda e del suo celebre alter ego, la Gioconda del Louvre.

Allegoria è una cosa che, posta in un determinato contesto, ne significa un’altra. Ad esempio l’immagine dell’aquila in un libro di scienze naturali rappresenta il maestoso volatile delle vette più alte, ma se la troviamo sul pulpito di una chiesa si può star certi che vi sta ad indicare l’evangelista Giovanni. Certo per svelare il secondo significato  bisogna essere in possesso di una chiave di lettura, in questo caso la conoscenza del simbolo dell’evangelista,che in molte occasioni viene riservata solo ad un determinato numero di persone.
Nell’antichità l’allegoria era assai diffusa e poesia ed arte ne erano intrise. Molti dipinti del Rinascimento risultano stravaganti o incomprensibili per chi voglia fermarsi al significato primo delle immagini, ma acquistano un senso se possediamo la chiave per il senso secondo o allegorico. L’allegoria è dunque per sua natura iniziatica, può essere svelata a molti o a pochi, ma si deve comunque averne avuta da qualcuno la chiave.
Le immagini di nudità femminile avevano spesso nel Rinascimento un significato allegorico riservato ai dotti: il caso forse più conosciuto è quello della Venere di Botticelli che sorge nuda dalle acque.
E’ anche probabile che in più di un’occasione l’allegoria sia stata il pretesto per introdurre immagini inequivocabilmente erotiche in ambienti che per loro natura avrebbero dovuto essere invece austeri, come ad esempio gli appartamenti di un cardinale. Sappiamo infatti che l’ambiente della Curia romana nel XVI secolo era assai libertino. Ma questo non altera il senso secondo dell’immagine.
La Gioconda Nuda di Leonardo (dipinto perduto) era un’opera allegorica e probabilmente lo era anche la Gioconda del Louvre. Un dipinto che anche a livello inconscio dà la sensazione a chiunque l’osserva, di trovarsi di fronte ad una porta per il mistero.

“Il Velo della Gioconda”, prosegue una strada che avevo già tracciato con “Beatrice e Monna Lisa” del 2005 e “Monna Lisa: il volto nascosto di Leonardo” del 2007, ma allarga la ricerca a tutta l’opera di Leonardo, mettendone in luce aspetti finora poco conosciuti. Vi dimostro infatti che, oltre al Leonardo che ci viene ufficialmente presentato, razionale, scettico, alieno da ogni forma di magia o scienza occulta, ne esiste anche un secondo che non esita a investigare il mondo dell’arcano, dalla sapienza ermetica fino a quelle alchemica e cabbalistica, in una ricerca ossessiva dei misteri profondi e occulti della vita e della natura. La “Gioconda” rappresenta il momento culminante di questo Leonardo segreto.

La domanda da cui sono partito è perché Leonardo avrebbe sentito il bisogno di dipingere una seconda Gioconda, nuda per l’appunto. Si trattava infatti di una giovane donna seduta in un balcone, con le mani in grembo nella stessa posa della Monna Lisa, leggera torsione del busto, sguardo rivolto verso l’osservatore, uno sfondo di paesaggio brullo e roccioso. In altre versioni di scuola leonardesca la donna è appoggiata ad una balaustra e alle sue spalle si scorge una ricca parete di mirto, la pianta simbolo di Venere.
Un gioco? Un dipinto erotico?
Mi sono poi reso conto che anche Raffello, più o meno negli stessi anni di Leonardo, ha dipinto due volte la stessa donna: la prima volta vestita e coperta da un velo, lo sguardo rivolto verso l’osservatore, la seconda, seminuda, alle spalle una uno sfondo fitto di mirto. Si tratta dei due dipinti conosciuti il primo come La Velata, il secondo come La Fornarina, quest’ultimo in antico denominato “una Venere mezza nuda”. Entrambe hanno lo stesso volto, la stessa posa e si adornano dello stesso triplice gioiello. Anche questa volta un gioco?
Oppure una segreta allegoria?
Ecco questa è la mia ipotesi: l’allegoria. Perché troppe sono le coincidenze. Raffaello, come tutti sanno, subiva profondamente l’influenza del maestro di Vinci e ne traeva spesso ispirazione. Lo considerava un grande filosofo e come tale dette il suo volto al Platone, che addita il cielo al centro dell’affresco della Scuola di Atene. Egli sapeva che la pittura di Leonardo nascondeva profonde verità filosofiche.
Ebbene, le due Gioconde, come le due donne di Raffaello, sembrano proporre una dottrina neoplatonica che costituiva una sorta di leit motiv del pensiero umanista. Esse sarebbero
allegoria delle due Veneri, quella “celeste” e quella “terrena”, che rappresentavano i due aspetti dell’anima, l’uno proteso verso la sapienza di Dio e l’altro verso la procreazione. I simboli ci sono tutti.
Ma non si trattava di una dottrina diffusa solo nel Rinascimento. Questa duplicità mistica emerge infatti anche nel pensiero di Dante, nascosta ancora una volta sotto il velo dell’allegoria: Beatrice rappresenta l’immagine dell’energia intellettiva dell’anima, mentre Matelda, che ne precede l’apparizione nella Divina Commedia, quella dell’energia procreativa. Nella Vita Nuova il ruolo di Matelda è ricoperto invece da Monna Vanna, che la precede come un araldo in una celebre canzone, e non mi sembra un caso che la Gioconda Nuda fosse denominata anche Monna Vanna. Il Rinascimento fu affascinato dall’opera di Dante, consapevole che vi si celavano allegorie e conoscenze segrete. Leonardo era anch’egli un indagatore degli scritti di Dante.
Ho maturato la convinzione che nella Gioconda si rifletta alla lettera la dottrina sull’anima esposta da Dante nel terzo libro del Convivio, che Leonardo ben conosceva perché più volte ne cita alcuni passi nei suoi appunti. Come la Beatrice di Dante, Gioconda sarebbe stata un soggetto allegorico, un’icona – talismano della parte celeste o intellettiva dell’anima, cioè di quella che la Gnosi identificava con l’eterna Sophia.

Il “Velo della Gioconda” non è tuttavia solo questo. Vi si parte dall’analisi di fatti che dimostrano come il dipinto più celebre della storia non sia il ritratto di Lisa, moglie di Francesco Del Giocondo, ma un’opera della tarda maturità di Leonardo, stilisticamente e concettualmente analoga alle opere del periodo romano dell’artista, certo posteriore al 1510. Recentemente è stata scovata nella biblioteca dell’università di Heidelberg una nota manoscritta di Agostino Vespucci, nella quale si afferma che nel 1503 Leonardo dipingeva effettivamente un ritratto di Lisa Gherardini, moglie di Francesco Del Giocondo, ma limitato al volto della donna. La nota di Heidelberg conferma il celebre racconto del Vasari, il quale nel parlare del ritratto di Lisa descrive solo una testa. Ma i dettagli anatomici riferiti dal pittore aretino differiscono da quelli che osserviamo nella Gioconda del Louvre. Si tratta dunque di due dipinti diversi? Molti studiosi lo pensano.
A sostegno dell’ipotesi di due soggetti diversi, sono le parole che lo stesso Leonardo, nei suoi ultimi anni di vita, ebbe a dire al cardinale d’Aragona: la donna misteriosa che noi conosciamo come Gioconda sarebbe stata dipinta su commissione di Giuliano dei Medici e dunque non di Francesco Del Giocondo. Leonardo fu al servizio di Giuliano dal 1512 al 1516. Lo stile della Gioconda coincide proprio con quello degli altri dipinti di Leonardo di questo periodo.
Si tratterebbe dunque di un’opera più tarda di una decina di anni, rispetto al ritratto di Monna Lisa Del Giocondo e sarebbe coeva alla Gioconda nuda, dipinta da Leonardo negli anni in cui era a servizio di Giuliano. La contemporaneità di esecuzione segna un altro punto a sostegno della mia ipotesi del legame simbolico fra i due dipinti.
Mi sono soffermato poi sull’affascinante ipotesi di Lillian Schwartz, la quale fin dal 1989 ha dimostrato la sovrapponibilità del volto della Gioconda con quello del presunto autoritratto di Leonardo conservato a Torino. Ella ne ha tratto la conclusione che nel dipinto Leonardo avrebbe idealizzato i propri lineamenti. A suo tempo ho dimostrato che la cosa sarebbe stata perfettamente coerente con la filosofia ermetica, che nel Rinascimento si era velocemente diffusa.
Ho dovuto tuttavia riconoscere che, seppur plausibile e suggestiva, la tesi di Lillian non è dimostrabile, perché la sovrapponibilità di lineamenti fra la Gioconda e l’autoritratto di Leonardo deriva probabilmente dall’uso di un canone proporzionale, che è comune anche ad altri ritratti.
Cercando invano conferme alla tesi di Lillian, ho infatti scoperto come sia i volti dipinti da Leonardo che il suo autoritratto rispondano tutti ai medesimi rapporti proporzionali e siano pertanto praticamente sovrapponibili. Così ho finito per confutare proprio ciò che avrei voluto confermare. Ovviamente di questo i giornali non hanno parlato, persi dietro al presunto scoop di una Gioconda Nuda.
Ma c’è di più: dietro ai dipinti più misteriosi, ed in primo luogo dietro alla Gioconda, ho individuato una seconda geometria invisibile, il cui simbolismo rinvia inequivocabilmente ai misteri di Sophia. La geometria della Gioconda sembra in particolare legarla al Cenacolo e ad un altro dipinto che il maestro tenne sempre con sé, la Sant’Anna con la Vergine ed il Bambino. In quest’ultimo si vela il mistero delle due Sophie gnostiche, immagini anch’esse, come le due Veneri platoniche, della duplicità dell’anima. La geometria nascosta permette di riconoscere una forte componente gnostica ed esoterica anche nella Vergine delle Rocce.
Nell’opera di Leonardo antiche dottrine gnostiche riemergono dunque con indiscutibile evidenza, filtrate attraverso la filosofia neoplatonica ed ermetica di Marsilio Ficino e di Pico della Mirandola.
L’ultima conclusione, se non la più sorprendente, a cui sono giunto, riguarda infine una misteriosa frase che Leonardo annotò fra i suoi studi sull’anima, al tempo in cui dipingeva la Gioconda: “Lascia ora le lettere incoronate, perché son somma verità”. Il riferimento alle lettere incoronate mi ha condotto su una strada che dimostra come Leonardo, seguendo Pico, si era immerso anche nel pericoloso oceano della Cabbalà, alla ricerca della matrice della vita e del segreto dell’infusione dell’anima nella materia.

In conclusione, domandarsi se sotto i colori della Gioconda vi sia o meno il ritratto di Lisa Gherardini è secondo me assolutamente ininfluente. Quel volto nascosto, che fu individuato dai raggi X sotto gli strati di pittura, può anche essere della moglie di Francesco Del Giocondo il cui ritratto, come abbiamo detto, rimase sempre e solo una testa priva del corpo e dello sfondo. La donna che Leonardo diversi anni dopo vi dipinse sopra su richiesta di Giuliano de’ Medici, filosofo e alchimista, sarebbe infatti tutt’altra cosa: una Dama misteriosa ed enigmatica, icona di una realtà soprannaturale che trascende la materia e partecipa solo dello Spirito.  Nel sorriso della Gioconda, come in quelli della Beatrice di Dante e della Laura di Petrarca, si velerebbe il mistero insondabile dell’anima eterna e il segreto della vita.
Non credo che Leonardo abbia mai trovato la chiave cabbalistica per l’infusione dell’anima nella materia, ma una profonda suggestione emana dallo sguardo intenso e dal sorriso enigmatico della Gioconda, come se una sorta di vita misteriosa il dipinto la possegga davvero. Come un angelo, ella sembra custodire la porta dell’eternità, assisa ieratica al di sopra di un panorama fuori dal tempo e dallo spazio, un mondo intermedio fra cielo e terra dove, come intuì Jaspers, i corpi si spiritualizzano e gli spiriti si materializzano. Contemplandola, anche la nostra anima si immerge nella profonda magia di una Donna celeste, scesa da cielo in terra “a miracol mostrare”.

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